LA DONNA E LA MORTE NELLA POESIA DI CESARE PAVESE
Nel 1949 Cesare Pavese conosce l'attrice americana Constance Dowling e con lei intreccia l'ultimo di una serie di infelici rapporti d'amore. Nella vita del poeta la donna è stata una presenza-assenza e nella sua scrittura un mito rivelato attraverso la simbologia del sesso e del sangue. E' stata il nodo emblematico della sua vicenda esistenziale sia sul piano del privato che su quello dell'arte, non soltanto come negazione di una realtà d'amore ma anche come scoglio su cui si arena l'idealità. In una lettera all'amico Davide Lajolo, Pavese chiama la Dowling "allodola" e scrive:"Essa si è fermata presso il mio covone di grano soltanto perché si sente sperduta, ma se ne andrà presto, lo sento,sentirò sbattere le sue ali, senza neppure la forza di alzare un grido per richiamarla". Tra l'undici marzo e il dieci aprile del 1950 il poeta scrive le poesie che verranno pubblicate postume con il titolo "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", e che si riferiscono alla sua breve storia con l'americana. La prima poesia porta come titolo "To C. from C.", verosimilmente "A Constance da Cesare", ed è scritta in inglese." (…) domani sarà il gelo/sotto la luce/tu variopinto sorriso/accesa risata", i versi di chiusura del testo prefigurano lo stato d'animo del poeta che si prepara a penetrare il mistero della morte. Per il poeta la donna,la terra e la morte si identificano:"Tu sei come una terra/che nessuno ha mai detto/tu non attendi nulla/se non la parola/che sgorgherà dal fondo/come un frutto tra i rami". La morte dunque come frutto stesso della terra, come realtà archetipa assolutizzante. Le poesie di "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" sono un addio dolce e straziante, una partitura dalla quale s'innalza la musica perduta della vita. "Lo spiraglio dell'alba/respira con la tua bocca/in fondo alle vie vuote/Luce grigia i tuoi occhi/dolci gocce dell'alba/sulle colline scure/Il tuo passo e il tuo fiato/come il vento dell'alba/sommergono le case/La città abbrividisce/odorano le pietre/sei la vita,il risveglio". Presenza fisica,dimensione temporale,luoghi, un'unità trinaria che si condensa e si manifesta nell'ultimo verso. La terra è il mallo che ha racchiuso il frutto pervenuto al poeta per un miracolo; la terra contiene la donna e ne è rappresentata( il tuo tenero corpo/una zolla nel sole), la donna "è" la terra che accoglierà la morte( sei radice feroce/sei la terra che aspetta). Donna-sesso-morte, correlazione emblematica(il tuo passo leggero/ha violato la terra/Ricomincia il dolore): il poeta è la terra,fredda,immobile in un "torpido sogno come chi più non soffre", ma è arrivata la donna e ha "riaperto il dolore". E' una violazione che sa di speranza ma è anche la paura di una rinnovata solitudine.
La poesia "La casa" è un'accorata seppure oggettiva invocazione ad un destino che non è mai appartenuto al poeta, quello di ogni uomo che costruisce il suo futuro accanto alla propria donna; in questo testo la presenza femminile è metaforizzata dal fonema voce, voce mai udita come costante presenza. La scrittura poetica di Cesare Pavese ha come apogeo la morte. Inutile ogni tentativo di indagare le ragioni del suo gesto finale; più utile soffermarsi sul dato letterario e considerare che le ferite di cui egli ha sofferto sono il presupposto delle due raccolte postume, "La terra e la morte" e "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", dalle quali, con crudezza ed essenzialità, attraverso un dettato poetico che si rivolge all'interlocutore donna-morte, si leva una tensione di altissimo patos.
LA SICILIANA RIBELLE
Un film per ricordare Rita Atria
Ci sono figure femminili anonime che con i loro piccoli gesti riescono in qualche modo a creare una cesura fra la morale del tempo in cui vivono e quella che dal loro atto scaturisce. Nel 1965 una giovane ragazza siciliana viene rapita, violentata e segregata per alcuni giorni da uno spasimante respinto. Al suo rilascio la società nella quale vive si aspetta che lei sposi il suo violentatore per “lavare” l’onta che ha subito, ma Franca Viola, questo il suo nome, si rifiuta di assecondare una consuetudine barbara legittimata dalle istituzioni. Scoppia il caso, la sua famiglia subisce intimidazioni e aggressioni, ma la giovane non cede e con la sua decisione sovverte un ordine sociale codificato, fino al punto di far cambiare la legge sul “matrimonio riparatore”. Circa trent’anni dopo, nell’ultimo decennio del ‘900, un’altra giovane siciliana sarà la tragica protagonista di una vicenda paradigmatica per l’evoluzione della lotta contro i sistemi mafiosi. Rita Atria ha solo dodici anni quando la mafia le uccide il padre, modesto boss di quartiere in una piccola città in provincia di Trapani. Alla figura del padre sostituisce allora quella del fratello Nicola e a lui si lega con particolare affetto. Da lui riceve delle confidenze sulla cosca che ha assassinato il loro genitore, perché anche Nicola fa parte del “sistema”. Ma è quello che viene definito un “pesce piccolo” e al primo sgarro viene liquidato anche lui. La ragazza comincia a riflettere sulla questione mafia e, dopo l’uccisione del fratello, nonostante gli ammonimenti e le minacce decide di raccontare tutto quello che sa al giudice Borsellino. Rita viene trasferita a Roma dove, ripudiata dalla madre, vive in completa solitudine. Nella città sconosciuta la ragazza spera di poter superare la rabbia e l’infelicità per essere nata in una famiglia il cui codice morale è il silenzio e l’omertà; conosce un giovane col quale si fidanza, tiene un diario dove riversa l’amarezza per le conseguenze che il suo senso di giustizia le ha arrecato, testimonianza del suo crudele percorso per la lotta contro Cosa Nostra. L’unico contatto che le resta con il mondo della legalità è quello con Paolo Borsellino. Ma sopraggiunge un tragico evento: la strage di via D’Amelio, che le porta via anche questa consolazione. Con la morte del giudice Borsellino l’esilio di Rita diventa un deserto senza speranza; assalita dallo sconforto la giovane si uccide. Al suo funerale nessuno della famiglia, la solitudine va oltre la morte, raggiunge il dileggio quando la madre si reca sulla sua tomba e a colpi di martello ne frantuma la lapide. Ma il suo coraggio nella decisione di collaborare con la giustizia assume agli occhi della legge un valore particolare che darà vita ad una nuova figura giuridica, quella di “testimone di giustizia”, riconosciuta legislativamente con la legge 13/2/2001 n.45.
E’ da questa vicenda che prende spunto il film “La siciliana ribelle” di Marco Amenta, presentato al Festival del Cinema di Roma e accolto con grande calore da pubblico e critica.
Amenta ha presentato il suo film come “una storia universale di rottura contro la mafia”, prendendo le distanze da quelle pellicole e quelle fiction che rischiano di trasformarsi in un modello negativo. “In questo film sulla mafia- ha dichiarato - il boss mafioso non é l’eroe, non é un grande attore, bello, affascinante e coraggioso. Tutto il contrario, il racconto in prima persona di Rita, ragazza siciliana cresciuta in una famiglia mafiosa, ci mostra la realtà: le brutture, la vigliaccheria, la tristezza di questi “ uomini d’onore”. L’unica veramente coraggiosa è infatti Rita Atria che attraverso il suo esempio ha mostrato che é sempre possibile opporsi a un nemico che sembra invincibile.”
Il regista palermitano registra al suo attivo il docufilm “Il fantasma di Corleone”, che ha vinto numerosi premi e che è stato venduto anche a tv estere, e il lungometraggio “L’ultimo padrino”. Con “La siciliana ribelle” entra nel circuito del cinema internazionale. Intanto ha comprato i diritti del libro “Il banchiere dei poveri” del premio Nobel per la pace Junus ed ha ottenuto il finanziamento per svilupparne la sceneggiatura e farne il suo prossimo film.
L’AUTUNNO SICILIANO DI UNA POETESSA TEDESCA
Verso la tarda metà del Settecento ebbe inizio in Europa quel fenomeno che ancora oggi viene ricordato con la denominazione di Grand Tour. Una “moda” di carattere culturale, nata dall’esigenza di scandagliare le istanze del neoclassicismo, che spingeva aristocratici ed intellettuali ad intraprendere lunghi viaggi verso l’Italia.
In principio il percorso si concludeva a Napoli, oltre la quale, era credenza comune, sorgessero le Colonne di Ercole. Ma in seguito all’esperienza del barone von Riesedel che, sollecitato dall’antiquario Winckelmann oltrepassò lo Stretto, si verificò in Sicilia un forte incremento di viaggiatori. L’Isola, che i compilatori cosmografici del Cinque e Seicento avevano descritto come terra selvaggia di miniere e caverne di zolfo, cominciò a vivere in quel periodo la stagione mitica della sua riscoperta, un’età felice che si sarebbe conclusa nei primi anni del Novecento con il dissolvimento delle due ultime dinastie commerciali: i Florio e i Withaker. Fino a quel momento la Sicilia aveva ospitato nomi illustri di artisti, di scrittori e di regnanti. Numerosi e prestigiosi furono soprattutto i viaggiatori di lingua tedesca quali, solo per citarne alcuni, Goethe, Freud, Wagner. Quest’ultimo dimorò a lungo a Palermo dove, chiuso in una camera del raffinato Grand Hotel et des Palmes, che a lui avrebbe intestato in seguito una delle sue grandi sale, completò il suo Parsifal.
Nell’autunno del 1951 arriva in Sicilia la scrittrice tedesca Marie Luise von Kaschnitz. L’Isola le si presenta nella realtà di un dopoguerra che la vede dilaniata, sì, dai bombardamenti, ma ancora custode di un passato di arte e di civiltà che nessuna guerra avrebbe potuto cancellare. Da questa esperienza di viaggio nascono nove poesie che alla fine del secolo scorso sono state pubblicate dalle Edizioni della Battaglia con il titolo di “Autunno Siciliano” e con la traduzione di Maria Teresa Galluzzo e Fabio Oliveri. Nove poesie ciascuna delle quali ritrae e racconta alcuni dei luoghi dell’isola.
Se Jean Houell aveva saputo cogliere i colori e le atmosfere dei paesaggi e dei palazzi nobiliari; se Norman Douglas aveva denunciato la misera realtà dei carusi delle zolfatare; se August von Platen era stato ammaliato dalla sacralità della bellezza classica e Goethe aveva cantato la terra dove “umil germoglia il mirto, alto l'alloro...”, Marie Louise von Kaschitz riesce a coniugare lo splendore della civiltà classica con lo squallore e il degrado post-bellici.
La silloge si apre con un testo che tratteggia il profilo dell’isola:
“Vi disegno il profilo. Un’ala come dalla spalla d’una dea
della Vittoria.
Lo schizzo, una zolla di monti rocciosi
rimasta in piedi sotto il fulgore del sole,
mentre con alga e sabbia e moto dei pesci
il mare ricopre le dolci pianure.”
Sei versi nei quali l’aspetto geografico viene delineato come da una esperta matita d’artista.
E continua addentrandosi nei particolari attraverso una scelta semantica che ne esplora colori, contorni, riti, dominazioni:
“Questa dalla terra ferma, questa dall’Africa,
questa dalla Spagna, questa dal Peloponneso:
ecco le vie dei navigli dei conquistatori stranieri.
Ora sollevate dal sentiero del giardino i ciottoli bianchi
a due, a tre. Non vi risplendono
simili a templi e duomi nella luce lunare?”
Oltre l’annientamento bellico ecco rifulgere le vestigia delle antiche civiltà che nulla riesce a cancellare. Le pietre perdono la loro valenza di detriti rimasti ad indicare lo sfacelo e la distruzione e assumono valore di testimonianza nei confronti di un passato di arte e cultura rimasto inciso nel tempo.
Dieci distici e un quadrisillabo finale raccontano Palermo in sequenza ossimorica: Palermo che luccica di chiese e gelsomini e Palermo di tanfo di morte e germogli color carne; Palermo “arcobaleno e nave arrugginita”, “tunica ridotta a polvere corona e spada”. Nessun’altra parola poteva dire meglio la duplicità di una contraddizione radicata nel tempo e nella storia.
L’atmosfera autunnale induce la poetessa ad indagare la natura e le cose. Nelle gocce di pioggia respira l’arcobaleno, gli uomini sugli asini “cavalcano ai margini del cielo”, nelle capanne rurali si dialoga di pene antiche e miseria, ma infine il sole che “risucchia dal fango fattorie e vetri” risplende come “piccola luce rossa”. E via via tutto viene incluso nel dettato poetico: banditi e cattedrali, templi e miti, rovine e splendori, vivi e morti, una tassonomia in cui non si classificano generi e specie ma nella quale si riconosce il segno della potenza affabulatoria dell’autrice. La Sicilia che si presenta a Kaschnitz è luogo di miseria ma anche crocevia di siti e figure che hanno lasciato il segno: Agrigento, Siracusa, Selinunte; Pirandello, Aretusa, Empedocle.
“La tempesta ha spezzato il cavo. Non c’è luce
nel duomo d’Agrigento.
Solo candele intorno al rigido catafalco
e le preghiere grigie delle ombre.”
Un incipit che immerge subito nell’atmosfera mistica e al contempo spettrale di un luogo sacro in cui si ritrovano figure religiose e personaggi della mitologia greca:
“Fedra nella luce delle candele, l’Addolorata
esce dal sarcofago e Ippolito.
Gli zoccoli scalpitano e la santa camera ancora
risuona del folle lamento d’amore.”
A Siracusa Kaschnitz ritrova “la ninfa /che vaga tra i rami, ricoperta/di frutti di martorana”
“Ti prenderanno, Aretusa?
Già mormori di nuovo
colori di muschio nel pallido papiro,
già si muove il tuo indocile amante,
riversa oltre il muro nella luce dell’alba
onde di schiuma salata.
Ma trova parole di pietas anche per il bandito “che ha concluso la sua vita come Gesù Cristo/per mano di un traditore”, nel quale ci è consentito individuare quel Salvatore Giuliano ucciso nel 1950. E’ la Sicilia che ancora e sempre vive nella contrapposizione, nel contrasto stridente, nell’antitesi, e che questo poemetto ha consegnato ai lettori di due secoli quale prova illuminante di come la poesia possa rendersi anche documento storico.
Marie Luise von Kaschnitz nacque nel 1901 a Karlsruhe ma ancora giovinetta si trasferì con la famiglia a Berlino. Nel 1925 sposò l’archeologo Guido von Kaschnitz-Weniberg e con lui nel 1941 si stabilì a Francoforte sul Meno che considerò sempre come la sua vera “patria”. Compì molti viaggi e soggiornò a lungo a Roma. Scrisse poesie, romanzi, saggi e biografie e conseguì diversi premi letterari. Morì a Roma nel 1974.